Le imprese storiche di Ettore Castiglioni e Gian Battista Vinatzer, a oltre 80 anni di distanza.
A oltre ottant’anni di distanza, credo non si possano non ricordare due avvenimenti che segnarono precisi punti di riferimento nella storia dell’arrampicata dolomitica: la scalata della Marmolada per la parete sud ovest di Punta Penia (29-31 agosto 1936) e della parete sud di Punta Rocca (2-3 settembre 1936). Due episodi strettamente connessi tra di loro, o quantomeno interdipendenti, non soltanto perché avvenuti sulla grande parete meridionale della stessa montagna, ma in quanto le due imprese hanno avuto protagonisti comuni e l’una è stata un po’ conseguenza e risposta orgogliosa all’altra.
Il periodo alpinistico degli anni ’30 si caratterizzò – particolarmente in Dolomiti – per i cosiddetti «grandi problemi» che venivano man mano individuati e che finivano per diventare ossessione e appannaggio degli alpinisti generalmente appartenenti alla rosa piuttosto ridotta dei piu noti e preparati.
ln questo atteggiamento si evidenziavano naturalmente forme «concorrenziali» stimolate da un forte desiderio di primato e talvolta di supremazia nazionale, che metteva implicitamente in gara e qualche volta in attrito il meglio dell’alpinismo europeo di quei tempi.
La vittoria del tedeschi Sofleder-Lettembauer sulla parete nord ovest del Civetta (1925), quella di Micheluzzi-Perathoner-Christomannos sul pilastro sud della Marmolada (1929) punti di riferimento e di comparazione per tanti anni di ogni altra impresa dolomitica — non furono che una «botta e risposta » nelle schermaglie di un alpinismo sportivo che in qualche modo seppure indirettamente trovava spinte opportunistiche nelle stesse ideologie politiche del momento.
Anche all interno della stessa nazione la «gara» era analogamente aperta e ognuno cercava a fondo nelle proprie possibilità, desderoso di esprimerle al meglio, maturando collaboratori capaci di dare precise risposte al momento opportuno.
Su questa traccia, ovviamente di estrema schematicità, che cerca di cogliere i punti di appoggio di una verità storica, si determinarono i due avvenimenti ricordati in premessa. Per il discorso che interessa all’occasione, gli oltre 500 metri di slancio della parete sud ovest della Marmolada che guardano verso il Contrin costituirono il primo «problema». Chiaramente erano là, sotto gli occhi di tutti. Anche il più distratto arrampicatore che saliva al rifugio non poteva non accorgersi di quell’evidenza, traendo le dovute considerazioni.
Vi misero sopra le mani in parecchi, soprattutto austro-tedeschi, ma tentativi seri vennero soltanto nel 1935 da parte del lombardo Ettore Castiglioni (Ruffré, 28 agosto 1908 – Valmalenco, 12 marzo 1944) che, completati gli studi in giurisprudenza, si era dedicato quasi interamente all’alpinismo e alla redazione di guide dei maggiori gruppi dolomitici.
Nell’approccio con la parete portò con sé Bruno Detassis, (Trento, 24 giugno 1910 – Madonna di Campiglio, 8 maggio 2008) un fabbro trentino che doveva avviarsi ad una brillantissima carriera alpinistica, diventando — come è tutt’ora — un simbolo dell’arrampicamento dolomitico. Oggi dire Brenta è come dire Bruno Detassis e viceversa.
Si alzarono sulla parete, non senza difficoltà, riuscendo a raggiungere — con un brutto bivacco in mezzo la grande cengia mediana. Tornarono alla base soprattutto perché psicologicamente scarichi. Erano tuttavia decisi a ritornare l’anno successivo.
Puntualmente ritornarono nell’agosto, ma non erano in una forma smagliante, come sarebbe stato necessario.
Castiglioni decise di «raddrizzare» il percorso dell’anno prima per rendere la via esteticamente più bella. Raggiunsero la cengia mediana in giornata, bivaccarono, ma il giorno dopo sul grande diedro che li sovrastava, non riuscirono ad andare oltre una ventina di metri. Rientrarono alla base con non poche difficoltà e con lunghe calate a corda doppia.
L’insuccesso tuttavia non aveva spento il desiderio di vittoria su quella parete: sarebbero ritornati al più presto per ritentare.
Castiglioni partì per la Valle d’Aosta per partecipare al congresso dell’Accademico che si teneva a Valtournanche, ma intanto Gino Soldà (Valdagno, 8 marzo 1907 – Recoaro Terme, 8 novembre 1989), il forte arrampicatore di Valdagno, salì di persona ai piedi della parete per vedere e per fare le sue considerazioni. Il «problema Marmolada» gli si era ficcato in testa per i troppi discorsi ascoltati negli ambienti alpinistici cortinesi e della Val di Fassa.
Tornò il 27 agosto con il compagno Umberto Conforto deciso ad attaccare. Due giorni prima (25 agosto), con Franco Bertoldi, aveva portato a termine una grossa impresa: la parete nord del Sassolungo.
Nell’incredulità di quanti, alpinisti e guide, si trovavano al Contrin, il 28 agosto i due vicentini, con tempi sbalorditivi, riuscirono a raggiungere la cengia mediana e a rendersi conto, più o meno, delle difficoltà della parte alta della parete.
Ridiscesero al rifugio.
In serata si incontrarono con Emilio Comici, salito lassù con in cuore un grosso pensiero per la Sud Ovest. Le sue sofferte preoccupazioni stavano diventando concretezze. Cenarono assieme, parlarono di molte cose, ma su quanto si stava per realizzare, nemmeno una parola!
In quel frangente le due parti dovettero fare chissà quali «acrobazie» per mantenere la cordialità del rapporto e per superare nel contempo il «sesto grado» di una difficile, antitetica situazione psicologica.
All’alba del 29, Soldà e Conforto attaccarono la parete. Raggiunsero la cengia mediana verso mezzogiorno carichi dei rispettivi zaini. Attrezzarono circa 60 metri del diedro successivo e, in serata, tornarono sulla cengia per il bivacco.
Il giorno dopo riuscirono a guadagnare circa altri 60 metri di parete vergine: un tratto che richiese il dispendio di non poche energie. Furono costretti ad un secondo bivacco su anelli di corda con il tempo decisamente volto al peggio.
Sferzati dal vento e dal nevischio, raggiunsero la vetta della Marmolada nella terza giornata, dopo 36 ore di arrampicata effettiva.
Mentre la vittoria innalzava il loro nome, confermandoli tra i grandi dell’arrampicata dolomitica, umiliava e amareggiava nel contempo Castiglioni, ritornato immediatamente al Contrin per chiudere con il «suo problema» che altri, nel frattempo, a sua insaputa, gli avevano risolto.
L’alpinista lombardo alla demoralizzazione e allo sconforto contrappose subito l’azione. Lui, che stava compilando una guida della Marmolada, poteva non conoscere altri eventuali problemi aperti sulla sua grande parete? In giornata stabilì il contatto con il modestissimo, ma altrettanto forte, arrampicatore di Ortisei Gian Battista Vinatzer (Ortisei, 24 febbraio 1912 – Ortisei, 3 novembre 1993).
Sulla inviolata lastronata calcarea di oltre 800 metri che da Punta Rocca precipita su Valle Ombretta, il gardenese aveva già fatto un assaggio; era allora in cordata con un istruttore di alpinismo che ben presto aveva dimostrato i suoi limiti per cui, per ragioni di sicurezza, Vinatzer aveva rinunciato.
Castiglioni, al Passo Sella dove l’aveva incontrato, gli propose in maniera convincente di riprendere in mano la salita assieme a lui. Non fu difficile convincerlo; d’altra parte Vinatzer, a conoscenza dei tentativi alla Sud Ovest, aveva già espresso a Castiglioni la sua disponibilità qualora gli fosse venuto a mancare il compagno di cordata. Ora gli veniva sollecitata un’altra occasione.
Senza porre in mezzo tanti indugi, la mattina del 2 settembre 1936, si portarono all’attacco della parete.
Soltanto 200 metri furono guadagnati in quel primo giorno di arrampicata, ma quante e quali difficoltà furono superate!
II giorno dopo continuarono la loro salita. Vinatzer, arrampicatore d’istinto, bravo quanto modesto, sicuro tuttavia dei propri mezzi e dei propri intendimenti, sempre in testa alla cordata, destreggiandosi su passaggi a volte molto duri, riuscì a guadagnare la comoda cengia che divide la grande parete.
Le grotte dal fondo terroso che lì incontrarono, dove finalmente si poteva assumere una posizione naturale, erano una lusinga per un comodo bivacco, ma data l’ora fu tentazione da rifuggire, per evitare tempi lunghi e rischi meteorologici. Continuarono a lottate con le difficoltà della parete.
Con una lunga deviazione a destra guadagnarono lo spigolo e, lungo quello, per sistemi articolati canalini, diedri e pareti, giunsero in vetta che era ormai buio.
Trascorsero la notte nella capanna «Adriano Dallago» assaporando la gioia di una bellissima vittoria e per Castiglioni di un grosso riscatto morale.
Passarono molti anni prima che l’impresa – uscendo da un certo oblio – assumesse l’alto livello che le spetta nella classificazione delle più belle e più difficili vie dolomitiche aperte nel periodo d’anteguerra.
È stato necessario attendere le ripetizioni dei nomi più illustri dell’alpinismo europeo perché venisse in luce il valore di una via che esalta l’arrampicata libera condotta ai limiti estremi (per allora) e la grandezza di due protagonisti: l’uno, Vinatzer, arrampicatore istintivo fin dalla fanciullezza, dal carattere naturalmente forte, volitivo, l’altro, Castiglioni, costruito e formato da una grande cultura unita ad una grande passione per la montagna, di cui poteva ben dirsi l’atleta, il «cantore».
Poiché su quest’ultima impresa e soprattutto sul rapporto tra i due protagonisti non si è mai scritto molto chiaramente e non sono mancate illazioni che possono gettare ombre sul rapporto stesso (certi passi della relazione, pubblicata successivamente sulla R.M. del CAI, scritta dallo stesso Castiglioni in termini ironico-paradossali, hanno dato adito a interpretazioni devianti anche in certi necrologi scritti dopo la morte dell’alpinista lombardo), ho voluto appurare la verità incontrando personalmente Gian Battista Vinatzer nella sua casa di Ortisei.
Le relazioni con Ettore Castiglioni sono state sempre improntate a livello di sincera amicizia, prima, durante e negli anni successivi all’impresa sulla Marmolada. Non ci fu mai screzio di alcun genere tra di loro. Sulla parete sud di Punta Rocca, Vinatzer ha sempre condotto la cordata considerando molto spontaneamente il suo rapporto con Castiglioni come di guida-cliente-compagno «…anche se guida ancora non ero!» aggiunge lo stesso Vinatzer alludendo polemicamente alla «domanda» che gli veniva regolarmente respinta per colpa delle guide della valle.
Personalmente ho visto il «re dell’arrampicata libera» commuoversi fino al singhiozzo e alle lacrime alla lettura di quei passi del diario segreto di Castiglioni che lo riguardavano e che lui non conosceva. Il compagno della grande impresa li aveva scritti al nentro dalla Marmolada:
«In Battista, più l’avvicino, più ritrovo l’amico che avevo perduto in Celso (Celso Gilberti caduto sulla Paganella l’11/6/1933 n.d.a.); la stessa limpida serenità, la stessa gioia di vita.
……
A Battista ho potuto raccontare di me ciò che forse non ho mai detto ad alcuno, ciò che è segnato solo su questo diario; e in lui ho trovato sempre comprensione intima e profonda, quasi spontanea e ingenua, data più ancora che dall’intelligenza, dalla comunanza e affinità delle nostre anime e dei nostri ideali».
A oltre ottant’anni dall’impresa, valga questa testimonianza a restituire intatta una verità storica, ma soprattutto morale.
Articolo di Tommaso Magalotti
(Sezione CAI di Cesena)
Tratto da LA RIVISTA del CAI del Dicembre 1986